Capitolo 35

Trattasi della valorosa e smisurata battaglia che fece Don Cyshiter con delle bottiglie di vino, e si pone finalmente fine alla novella necroerotica K626

La lettura della storia era vicina al termine, quando dalla camera dove si era ritirato Don Cyshiter arrivò Sergio Zanca, trafelato e scomposto, gridando:
«Aiuto, aiuto! Venite ad aiutare il mio amico che sta combattendo una terribile battaglia.» Gli astanti lo guardarono sbigottiti.
«Ve lo giuro su mia madre! C'è il gigante nemico della principessa Dorotea, e Don Cyshiter gli sta ficcando tante spadate che deve avergli mozzato la testa.»
«Ma che dici, siamo a venti chilometri dalla Mandria.» Disse Pietro cercando di calmarlo. Ma dalla porta, che Sergio aveva aperto per entrare nella sala, provenivano strepiti e fracasso:
«Fermati ladrone, Malandrino, poltronaccio, che ti ho già preso e a nulla varrà la tua scimitarra.»
«Non state lì impalati, venite presto.» Incalzava lo scudiero. «Uno scontro così non si vedeva da quando mio cugino Rosario ha beccato un tipo che toccava il culo alla sua ragazza!»
Si udì un rumore di vetri infranti, Sergio si voltò a guardare verso la stanza ed esclamò:
«Santo Cielo! Deve aver staccato la testa al gigante, venite a vedere, c'è il sangue che bagna tutto per terra.»
«Nooo!» Proruppe l'oste. «Don Cretino avrà rotto le bottiglie della credenza, altro che sangue, balordo ritardato!»
Entrò subito nel camerone, seguito da tutti gli altri, e vi trovò Don Cyshiter in camicia. Teneva avvolta intorno al braccio sinistro quella stessa coperta che Sergio odiava non senza ragione, e col destro brandiva la spada con cui menava colpi spietati. Parlava come se stesse combattendo contro il gigante Zardu, ma teneva gli occhi chiusi, preda di un sonnambulismo sfrenato.
Era così calato nel proprio sogno di battaglia che aveva sfracassato a colpi di arma bianca numerose bottiglie decorative di vino poste su una credenza e tutto il pavimento era coperto di liquido rosso e cocci di vetro.
L'oste, come posseduto dallo spirito di Binnu u' Tratturi, si scagliò contro il ragazzo e lo sommerse di randellate fintanto che Pietro e Giuliano non lo portarono via di peso.
Don Chyshiter aprì gli occhi, ma non aveva ancora riportato il cervello nel luogo in cui si trovava il suo corpo.
Dorotea, che si sentiva in parte responsabile di quella incresciosa situazione, si coprì gli occhi, incapace di guardare il combattimento del suo campione.
Sergio cercava nella stanza il corpo di Zardu e, non trovandolo, si disperava.
«Sicuro che questo ostello è infestato. L'altra notte proprio in questo posto sono stato assalito a morsi e bastonate da un qualcosa invisibile, e ora è sparito il cadavere del gigante, sì che l'ho visto coi miei occhi buttare sangue.»
«Ma che sangue e sangue, nemico di Dio?» Diceva il gestore dell'ostello. «Non vedi che è vino?»
«Io non c'entro niente,» si difendeva Zanca, «dico solo che se non troviamo il corpo rischio di dire addio al mio harem di elfe.»
Dorotea consolò Sergio, promettendogli che avrebbe avuto tutta la gratitudine del suo popolo non appena si fosse accertata la morte di Zardu.
Pietro, Nicola e Giuliano faticarono non poco per rimettere nel letto Don Cyshiter e ancora di più per sedare il padrone di casa, che pretese un indennizzo per il gran danno ricevuto.
Quando gli animi si furono quietati, tutti risero dell'accaduto. Facevano eccezione due prodi della Mandria, che erano tornati ad un meritato riposo, e l'oste, che si ritirò malcontento nelle proprie stanze.
Pietro Pere, esortato dai compagni, concluse la serata portando a termine la lettura delle avventure vampiriche delle giocatrici di ruolo.

Le Parole di Ishtar, il testo sacro che l'antico primogenito aveva lasciato alla propria Linea di Sangue, era stato consegnato dal Conte Walsegg al compositore, affinché egli lo mettesse in musica.
Non fu difficile recuperare le pergamene che Mozart aveva affidato alla propria allieva ed amante.
Quando le portammo al Conte, egli ci rivelò che con esse intendeva risvegliare la sua amata, che da tempo aveva ceduto al Torpore, il sonno centenario che coglie i vampiri più anziani.
Trovammo il suo corpo nuovamente disteso sull'altare, avvolto in vesti pulite, il Conte lo contemplava poco distante, chino su un inginocchiatoio.
L'introitus si aprì con le note che avevamo già conosciuto, eseguite con ancor maggior perizia. Quando il coro cominciò a cantare udii una lingua straniera, inintelligibile.
Quel suono si insinuò nelle mie orecchie come un liquido caldo, facendomi rizzare i peli lungo tutta la spina dorsale. Fui colta da una sensazione di estrema malinconia, un sentimento struggente mi cinse il petto.
Dopo alcuni minuti, Walsegg si alzò e si avvicinò all'altare. Lo fissò a lungo dandoci le spalle, poi ci comandò di avvicinarci con un gesto appena accennato delle dita.
«È stupenda.» Disse senza distogliere lo sguardo dalla sua amata. «Maestosa, irresistibile anche nel suo Torpore.» Ed io condividevo quell'ammirazione.
Sollevò un braccio e con gli artigli dell'altra mano si recise un polso. Dall'alto fece sgorgare il sangue verso la bocca che rimaneva immota, appena socchiusa.
Fissai con desiderio quella cascata, più rossa e brillante di un rubino, mentre lui invocava quella donna.
«Apri gli occhi Morgan, torna a guardarmi.» E chiamandola riversava in lei tutto il proprio sangue, tutta la propria vita.
Durante la terza sequenza, il Primogenito era consunto, la pelle candida mostrava aloni neri e si tendeva sui fasci muscolari e sulle ossa come un guanto di lattice.

«Come cosa?»
«Come un guanto di lattice.»
«Perché, c'erano i guanti di lattice nel settecento?»
«Vabbé, magari la narratrice racconta la storia a posteriori.»
«Perché non un preservativo, allora? La pelle si tendeva sui fasci muscolari come il lattice di un preservativo su stoc...»
«Noi ragazze vorremmo ascoltare la storia, grazie.»
«Tanto si sa che alla fine si arriva a parlare di ca...»

...come un guanto di lattice.
Quasi gli cedettero le gambe, il pavimento della cappella era inondato di un fiume rosso fin oltre le panche.
«Più Vitae, serve più Vitae.» Mi afferrò un braccio e affondò le zanne nelle mie vene senza che potessi oppormi, senza che volessi oppormi, perché è ciò cui agognavo da quando avevo posato per la prima volta gli occhi su di lui. Fui scossa da un brivido e da un orgasmo che si protrasse ancora e ancora, fino a diventare doloroso.
Il mio sangue, attraverso il suo corpo, scorreva fino alla donna che rimaneva insensibile a tutto ciò.
Urlai in un misto di estasi e paura, caddi in ginocchio e mi trovai al livello dell'altare. E improvvisamente vidi la donna aprire gli occhi e guardarmi con iridi nere come pozzi senza fondo.
Balzò in piedi facendoci cadere entrambi in terra, poi si voltò e con la velocità del vento in tempesta corse attraverso il coro e i musici.
Ne ghermì uno, poi un altro, lasciandoli cadere a terra privi di sangue e di vita; altri ancora ne uccise senza nemmeno nutrirsene, seminando morte come un angelo dell'Apocalisse, mentre i loro compagni rimanenti continuavano ad eseguire il Confutatis.
«Morgan! Anna!
Guardami, riconoscimi!» Urlò von Walsegg verso la rediviva.
Lei si fermò solo un istante a guardarlo con occhi ferini, poi si gettò in direzione di una vetrata e infrangendola scomparve nella notte.
Ero quasi esangue, il suono del Requiem era un fischio persistente nelle mie orecchie.
Il Conte Walsegg era abbandonato a terra, vidi Miss Swanson raccoglierlo come si prenderebbe in braccio un bambino. Lo adagiò sull'altare e gli chiuse gli occhi sbarrati nel vuoto.
Il Primogenito Toreador era caduto in torpore.
«Una persona può accettare la separazione dalla propria amata, ma non il suo disinteresse.» Disse col suo accento inglese. «Come sempre, l'amore è la prima causa di follia, anzi è follia già in sé.»

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