Capitolo 13

In cui bisognerebbe raccontare le vicende di Marcella, ma invece ci si perde in facezie

Nonostante i vizi della sera precedente, si levarono tutti all'alba. Chi riposato, chi coperto di punture di zanzara, chi, come Don Cyshiter, entusiasta di partire per quella strana cerimonia funebre.
Dopo circa un'ora di viaggio stavano percorrendo l'ultimo tratto della statale di Lanzo, a velocità molto morigerata per via del paladino che non poteva tenere in testa il proprio casco e che si ostinava a portare con sé quel bastone che chiamava lancia.
Nell'area verde che affianca la strada, di solito occupata da allegre famigliole per le grigliate domenicali, incontrarono un folto gruppo di ragazzi, accorsi per compiangere l'amico.
Don Cyshiter venne presentato ad alcuni dei presenti. La stranezza del suo abbigliamento spiccava anche in mezzo a persone vistosamente tatuate o cariche di pearcing; qualcuno trovò forse di cattivo gusto la sua eccentricità in un'occasione di cordoglio e gliene chiese ragione.
«La professione a cui mi son dato non mi consente di vestire altrimenti. Il passo agiato, i piaceri, il riposo son fatti soltanto per i delicati cortigiani; ma il travaglio, l'inquietudine e le armi sono proprie di quelli che vengono chiamati dal mondo paladini di Selune, dei quali io sono il minore di tutti.»

Appena lo sentirono parlare in questo modo, lo etichettarono come scemo e, per meglio capire di che genere fosse la sua demenza, gli chiesero chi o cosa fossero i paladini di Selune.
«Le signorie vostre non hanno mai letto gli annali dei Forgotten Realms, dove si narrano le imprese del celebre Elminster e di Drizzt Do'Urden?
Non hanno forse sentito parlare delle terre dove visse il barbaro Misc con il suo criceto spaziale gigante miniaturizzato?
Ebbene è in questo mondo che Selune diede vita ai propri paladini dei quali, benché indegno, faccio parte. Nostro deliberato proposito è offrire il braccio e l'anima ai deboli, agli indifesi e a chiunque necessiti il nostro servigio, sfidando i cimenti più pericolosi che la sorte voglia porci di fronte.»
Con quest'ultima uscita Don Cyshiter finì per convincere i presenti di essere uscito di senno.
Uno di essi, che faceva di nome Vivaldo ed evidentemente aveva qualche esperienza nel gioco di ruolo, per rallegrare un po' l'atmosfera depressa di quel raduno decise di istigare un po' Don Cyshiter dicendogli:
«Immagino che la vostra dea protettrice vi conceda anche la facoltà di lanciare alcuni incantesimi, come avviene per i chierici, o sbaglio?»
«Nessun fallo. Come altri cavalieri, non meno meritori di noi, votati a divinità minori, anche a noi viene concesso di guarire con l'imposizione delle mani, di individuare il male e di proteggerci da esso.»
«Però non ho mai ben capito questa questione della memorizzazione degli incantesimi. Com'è che ogni giorno bisogna ristudiare gli incantesimi per poterli usare, e per lanciare uno stesso incantesimo più volte in un giorno occorre impararlo più volte a discapito di altri?»
«Voi fate confusione con la magia dei maghi e degli incantatori, che risponde a leggi che non conosco così approfonditamente e che qui sulla Terra comunque non avrebbero efficacia, essendo da noi troppo lassa la Trama della magia.»
«Sì ma anche a voi la divinità patrona concede solo un certo numero di incantesimi al giorno, o sbaglio?»
«Non sbagliate.
Per quanto sia giusto e importante sapere di quanti e quali prodigi divini si può beneficiare, è opportuno ricordare che il livello e la lista di incantesimi non sono che rappresentazioni formali di un meccanismo divino, che quindi per definizione sfugge alla nostra comprensione nei suoi retroscena più profondi.»
«Giustamente, e io non pretendo di capirne più di voi.
Però c'è ancora una cosa che mi sfugge: la questione dell'allineamento. I paladini devono essere di allineamento legale buono, ma in un mondo complesso come quello di oggi, come si fa a capire veramente se si sta agendo secondo allineamento o no?»
«Nelle storie di moda oggigiorno, gli eroi scendono spesso a compromessi ed è a volte difficile discernere i buoni dai cattivi. Questo riflette la morale odierna, che vuole che Bene e Male siano relativi e opinabili.
Nella mia esperienza però vi è sempre stata una netta distinzione fra giusto e sbagliato, così come fra Ordine e Caos. L'animo umano tende all'ignavia e la relatività di un'azione malvagia è una menzogna che ci raccontiamo volentieri per evitare di schierarci apertamente, esponendoci a fatiche e pericoli.
È però insita in ognuno di noi la facoltà di distinguere in ogni momento il Bene dal Male ed è sacro dovere di ogni paladino seguire il Bene.»
«Non vi siete quindi mai trovato in difficoltà nell'intraprendere una scelta?»
«Signor mio, se anche mi trovassi di fronte ad un dilemma morale, potrei avvalermi del divino aiuto dell'Avatar di Selune, che cammina su questa terra col nome di Selene di Robassomero. Guida infallibile e luce intramontabile dell'Ordine e del Bene.»
Un piccolo crocchio di gente si era radunato ad ascoltare questi discorsi di alta filosofia, in seguito ai quali anche il più fumato deigli spettatori si rese conto di quanto fosse svalvolato il buon Cyshiter. Solo Sergio Zanca, che non ascoltava mai con troppa applicazione per evitare di farsi venire l'emicrania, prendeva sul serio quel che diceva il suo amico. Gli suonava solo strano quanto detto su questa tale Selene di Robassomero, nome che gli tornava familiare e che nella sua immaginazione dava una sfumatura nuova al concetto di Avatar di Selune.

Si intrattenerono un po' in queste facezie, sogghignando alle spalle di Don Cyshiter, finché qualcuno attirò l'attenzione verso un fuoco che era stato acceso in uno delle griglie predisposte nell'area verde.
Il brusio generale andò scemando e infine un ragazzo prese la parola.
«Questo ceppo che stiamo per bruciare rappresenta simbolicamente il corpo di Giò.
Giò era un ragazzo intelligente, sempre gentile senza ipocrisia, sempre scherzoso senza volgarità, la persona più buona che io conoscessi e per certi versi la più sfortunata.»
Declamava il discorso con la sicurezza di chi ha imparato un testo a memoria ma non senza sincera commozione.
«Si è innamorato perdutamente di una persona che lo ha rimbalzato senza pietà. Parlava a una sorda e scriveva poesie per chi non voleva sentirle.
Ora insieme a questo legno brucerò le poesie di Giò, così come mi ha chiesto di fare lui
«Ma no, dai!» Esclamò Vivaldo. «Avrà fatto questa richiesta in un momento di sconforto, non sarebbe giusto darci fuoco. Giò può in un certo senso vivere ancora attraverso le sue poesie, e inoltre gli renderebbero giustizia facendo sapere a tutti come si è comportata Marcella.»
L'oratore, che si chiamava Andrea ed era stato il miglior amico di Giò, scuoteva la testa. Vivaldo proseguì:
«Siamo tutti corsi qui, senza preavviso, per fare un ultimo saluto a Giovanni, vorremmo tutti portare con noi un ricordo. Permettimi almeno di salvare una poesia e di fare delle fotocopie per gli altri presenti.» Senza attendere risposta fece due passi avanti e prese in mano alcuni fogli posati sul bordo della griglia.
«Non voglio far scoppiare litigi qui oggi, quindi tieni pure quei fogli, ma rispetta il desiderio di Giò e lascia bruciare gli altri.»
Vivaldo, che era curioso di vedere cosa ci fosse scritto, guardò il primo foglio e lesse ad alta voce: «Lamento di un disperato».
Lo udì Andrea e disse: «Quella è l'ultima poesia scritta da Giò, quando era già in pieno trip da acido. Leggila ad alta voce, così tutti sentiranno a che punto era ridotto.»
E siccome tutti erano ormai curiosi di sentire, gli si fecero attorno e Vivaldo lesse a chiara voce la poesia che recitava così...

Stacco musicale, titoli di coda, cliffhanger fino alla prossima puntata.
Voglio immaginarvi tutti in trepidante attesa per dieci giorni, come se a qualcuno fregasse qualcosa.

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